Le nuove culture


di Alessandro Ferioli

La riflessione sul rapporto tra globale e locale, come tentativo di fornire una risposta al problema dell’incontro fra globalizzazione e cultura, ha dominato per lungo tempo gli studi dell’antropologo svedese U. Hannerz, fissando come odierna sfida dell’antropologia culturale quella di “cogliere le nuove modalità con cui il mondo trova una coesione nell’attuale, nuova organizzazione del significato e dell’agire”. L’autore vede nella globalizzazione – o meglio nella transnazionalità – dei prodotti, dei gruppi e delle culture un fenomeno (di per sé né positivo né negativo) capace di rimettere in discussione il tradizionale concetto di cultura (E. Tylor 1871), che diviene oggi sempre più difficoltoso associare a determinati territori; da qui deriva il progressivo utilizzo del termine al plurale (a evidenziare, seppur in maniera ancora inadeguata, una molteplicità di culture risultanti da altrettanti processi storici) e il riconio di un termine antico, quello di “ecumene”, nella nuova forma di ecumene globale, idoneo a indicare l’“interconnessione del mondo che avviene per mezzo di interazioni, scambi e sviluppi correlati, riguardando anche l’organizzazione della cultura” .

La dialettica locale/globale si pone, per Hannerz, come specchio della tendenza rispettivamente alla continuità culturale e all’innovazione, allo scopo di evidenziare le interconnessioni esistenti al mondo in un’ottica di apertura e accettazione cosmopolitica delle differenze culturali. In tal modo la disciplina può continuare ad avere una ragione d’essere come il sapere della differenza, che trova applicazione nello studio non già più soltanto dei “popoli primitivi” ma più in generale delle differenze culturali, contribuendo in tal modo a salvaguardare tali differenze e, nella misura in cui presenta una concezione più articolata della realtà, fornendo una sorta di “antidoto” al rischio d’una omologazione culturale, allo scopo di vaccinare dai pericoli culturali (e non solo) dell’etnocentrismo. Lo studio della cultura di un popolo – oggi intesa in riferimento alla tecnologia, all’organizzazione sociale, alle credenze e ai valori – mette in luce quindi le componenti comportamentale, cognitiva e materiale dell’adattamento umano all’ambiente, ponendo l’accento sia sui fenomeni di variabilità dell’uomo sia sulla sua sostanziale unità biologica e psichica. Fabietti-Malighetti-Matera usano a tal proposito le espressioni di culture ibride, intese come le “nuove sintesi, i nuovi profili, i nuovi paesaggi che caratterizzano il mondo contemporaneo”, e di pensiero meticcio che nasce sulla linea d’incontro fra tradizioni culturali diverse, spesso desunte dal “locale” e dal “globale”: esempio di ciò è l’abitudine, diffusa a Singapore, di mettere i feticci nei frigoriferi per garantirne la corretta funzionalità. E tuttavia anche nelle cosiddette ibridazioni, che lascerebbero supporre scambi culturali proficui, persistono tra i diversi soggetti asimmetrie determinate dal potere contrattuale negli scambi, da taluni imposti e da altri subiti (quand’anche tale assunto non andrebbe a mio parere radicalizzato, poiché spesso chi ha il potere di “imporre” determinati processi non ne ha, però, la consapevolezza e quindi, in certo senso, si trova a subire il suo stesso potere o a perderne il controllo per eterogenesi dei fini).

Oggi il “traffico delle culture” (trasnazionalità delle culture), inteso anche come mobilità di persone e di idee, sembra essere ancor più “garantito” dal collegamento a Internet, con la conseguente possibilità di accedere a banche-dati mondiali, di entrare a far parte di comunità virtuali (anche di “buone pratiche” professionali), di collegarsi/connettersi - con un clik come si suol dire - con chiunque e in qualunque parte del mondo. Sicché “è soprattutto grazie a queste tecnologie mediatiche e di trasporto che il mondo, o almeno buona parte di esso, oggi ha la consapevolezza di essere un campo unico di interazione e scambio persistenti”. Da queste considerazioni deriva l’assunto che la comunicazione planetaria, le nuove tecnologie, l’espansione dei commerci e dei mercati e il turismo sarebbero i motori propulsori di nuove ibridazioni culturali.

Perciò le aziende più innovative hanno posto come valore fondante della loro vision la parola glocalizzazione, intesa come una dinamica di marketing che focalizza la presentazione e la sponsorizzazione del prodotto anche sulla sua appartenenza locale, magari volutamente stereotipata, senza rinunciare a integrarsi nella cultura del paese o del luogo di destinazione, allo scopo di non appiattire le differenze culturali di marchi, prodotti, soluzioni. È il caso della strategia perseguita negli ultimi anni da Poligrafici Editoriale S.p.a. che, dopo avere acquisito prestigiosi quotidiani regionali molto radicati nei rispettivi territori (Il Resto del Carlino di Bologna, La Nazione di Firenze e Il Giorno di Milano), ha realizzato una redazione nazionale sotto la denominazione di una nuova testata - Quotidiano Nazionale - affian-cando quindi a essa le edizioni locali. Ed è anche il caso di Datalogic, azienda “bolognese” e al tempo stesso “mondiale”: “Datalogic vuole tendere ad una glocalizzazione completa – afferma il suo direttore generale Roberto Tunioli – che significa essere globali ma con un radicamento locale.

Questa è la sfida che la nostra società si prepara ad affrontare: non si può operare in un solo posto perché, nel momento stesso in cui si va a dormire in una parte del mondo, c’è qualcuno, un cliente o un concorrente, che si sveglia e comincia la sua attività dalla parte opposta”. Così ogni anno escono dalle fabbriche di Datalogic circa 600 mila pezzi, e ogni giorno almeno quattro aeroporti su dieci, fra cui Narita in Giappone e Atlanta negli Usa, utilizzano i suoi prodotti per smistare i bagagli; mentre in tutto il mondo Deutsche Post, Poste Italiane, Unicredit, Banca Intesa, Wal-Mart, Carrefur e Esselunga hanno sedi attrezzate con le sue soluzioni.

In realtà, se il problema della circolazione di persone e idee nella società multimediale è correttamente impostato da Annerz, va però anche ribadito che la comunicazione che si svolge sul filo dei media è sostanzialmente una comunicazione asimmetrica, gestita in gran parte dall’industria culturale che la sfrutta a proprio vantaggio: sicché, pur senza giungere alle estremizzazioni di N. Chomsky secondo cui la stampa ha il compito di “indottrinare la gente e di impedirle di capire il mondo” , possiamo comunque ritenere che “la caratteristica della comunicazione di massa è … che in essa vi è un fondamentale squilibrio di potere dalla parte dell’emittente”. Il che assume evidenza particolare quando la circolazione dei messaggi avviene in contesti caratterizzati da regimi totalitari, e quindi operanti un forte controllo sugli organi di comunicazione. Inoltre quella situazione di fatto di “esclusione informatica” che viene chiamata digital divide, e che opera sia in senso orizzontale (tra continenti, tra Paesi e all’interno di un Paese) sia in senso verticale (per età, reddito, sesso, istruzione e lingua), impedisce ancora oggi a troppe persone nel mondo di accedere ai nuovi media.

La stessa percezione, rilevata da Hannerz, secondo cui “una diretta conseguenza della grande interconnessione sia il fatto che buona parte di noi senta di poterne disporre di una fetta sempre più ampia all’interno del proprio habitat di significato”, come una sorta di risposta alla domanda se vi sia più o meno cultura, deve fare i conti a mio parere con quelle caratteristiche “epocali” dei nuovi media messe in evidenza da R. Simone come intelligenza simultanea e fusione, in netta antitesi con le forme tradizionali di elaborazione del sapere individuate invece nell’intelligenza sequenziale e nella lucidità. Il che s’incontra con la tesi di A. Appadurai secondo cui i mezzi elettronici tendono a sovvertire e trasformare le altre forme di alfabetizzazione contestuale, e sembra del resto confermato anche dalla decisione della rivista statunitense “Time” di attribuire il titolo di personaggio dell’anno a “chiunque abbia una connessione Internet e la capacità di usarla”, per essere stato protagonista di una vera rivoluzione nel mondo della comunicazione e dell’informazione, oggi non più affidata in maniera preponderante ai professionisti del settore.

Nuovi paesaggi culturali (o panorami etnici, per dirla con Appadurai) sono delineati dalla presenza di migranti desiderosi di trascorrere periodi più o meno lunghi nel paese ospite per accumulare denaro da investire dopo il rimpatrio o attraverso le rimesse ai familiari: è il caso, ad esempio, delle cosiddette “badanti”, spesso irregolari e quindi “invisibili”, e di certe categorie di professionisti sanitari (specialmente infermieri professionali) provenienti da Paesi UE ed extra-UE, che costituiscono in Italia una nuova forza-lavoro cui si richiede un’elevata professionalità ma che troppo spesso si lascia colpevolmente imputridire nelle pieghe dello sfruttamento. Perciò una certa aliquota di stranieri non desiderano affatto d’integrarsi come cittadini a pieno titolo nei paesi ospitanti, né sono disposti a rinunciare alla loro cultura d’origine, marcando anzi le “differenze” in tutti i modi possibili, specialmente dove il rapporto con l’origine – ed è il caso anche di molti bambini che accogliamo a scuola – costituisce “un’urgenza irrinunciabile, perché equivale all’elaborazione di un loro rapporto con la famiglia, la valutazione di sé e del proprio gruppo, la propria natura di individui e cittadini”: quindi “uno degli aspetti centrali della realtà contemporanea è la maniera in cui, all’ombra della globalizzazione e delle culture transnazionali, si riformulano le identità individuali e collettive” di tanti individui spostati dal loro abituale spazio fisico in molteplici altri luoghi (delocalizzazione e de-territorializzazione) .

In Italia, per focalizzare l’obiettivo sul nostro Paese, “grazie ad un sistema articolato di centri grandi, medi e piccoli, i casi di addensamento della presenza straniera sono limitati e riguardano soprattutto alcuni capoluoghi medio-piccoli del Centro-Nord a prevalente vocazione industriale (Prato, Brescia, Treviso)”. Nelle due metropoli del paese - Roma e Milano - anche per le difficoltà di reperire un alloggio la quota di immigrati sulla popolazione ancora non supera il 9%. Al contrario nel Regno Unito i due terzi dei nuovi arrivati si insediano nell’area londinese, e in Francia il 40% degli stranieri immigrati vive nella regione parigina. Perciò il Rapporto Censis ha usato, in riferimento alla presenza d’immigrati in Italia, l’immagine della spugna. Esiste invece un marcato squilibrio geografico legato alla maggiore, e più seria, offerta lavorativa delle regioni del nord, che assorbono circa il 60% dei soggiornanti (concentrati per un quarto del totale in Lombardia). Le regioni del sud (con appena il 14%, pari alla quota del Lazio), svolgono invece soprattutto il ruolo di territorio d’ingresso, fungendo da tappa iniziale di un percorso migratorio che ha come destinazione finale altre regioni italiane o altri Paesi europei. Ciò implica come elemento essenziale dell’approccio l’accettazione dell’Altro e la disponibilità a incontrarsi con etnie diverse e a rispettarne credenze religiose e ideologiche non “a prescindere” ma proprio in ragione della loro alterità.

Per altri versi, invece, si assiste a una pluralità di tentativi di circoscrivere l’idea di umanità entro spazi ristretti, sostenendo costruzioni identitarie talvolta coincidenti con il concetto di piccola patria, talaltra con quello di etnia senza Stato con una forte aspirazione all’autonomia. Tali sforzi vanno sicuramente rispettati tutti, quand’anche possano apparire non in linea con l’evoluzione dei tempi segnati dalla globalizzazione dei mezzi elettronici. Un tentativo di sintesi tra globale e locale è comunque presente – se ci si passa il termine di confronto – negli utopisti del Settecento: specialmente J. J. Rousseau ricercò nell’utopia del governo sovranazionale i vantaggi di una grande potenza, robusta e in grado di difendersi dai nemici esterni, ma al contempo anche quelli di un piccolo stato - come la Lega Elvetica, appunto - capace, per le sue dimensioni ridotte, di realizzare una democrazia quasi diretta, adeguata alle tradizioni e alla cultura locale. Da questa lezione può derivare, se avremo le orecchie per intenderla, l’idea di un’Europa federale, insomma, massimamente ri-spettosa tuttavia delle singole patrie e dei regionalismi. Per etnie senza Stato, invece, intendiamo qui le etnie senza Stato nazionale, alcune nazioni dell’ex Unione Sovietica (popoli che in passato avevano smarrito l’indipendenza), gruppi etnici confinanti con il proprio Stato nazionale, gruppi etnici sparsi e popoli slavi meridionali.

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L’antropologia culturale, in quanto “sapere delle differenze”, ha diverse implicazioni nella pratica della didattica scolastica: per un verso essa si pone in rapporto di complementarità con la pedagogia nello studio dei processi educativi, fornendo metodi e punti di vista transdisciplinari per l’analisi dello sviluppo infantile, e assumendo la scuola come un luogo privilegiato di ricerca etnografica nelle società; per un altro verso, invece, in ragione dei suoi stessi fondamenti investigativi ed euristici sollecita atteggiamenti ispirati al relativismo culturale, inteso come “riconoscimento della pluralità delle culture” in opposizione all’etnocentrismo. Quindi essa costituisce una valida risorsa per la professionalità docente, da giocare sia nella programmazione curricolare d’Istituto sia come esperienza culturale (“autonoma” o nell’ambito di più articolati progetti interculturali), sia infine per cercare di trovare spiegazione – e quindi fornire risposte – al fenomeno dell’insuccesso scolastico. Perciò l’obiettivo dello studio dell’Antropologia culturale a scuola – spiega l’autore di un manuale nella prefazione - “è più ampiamente strategico, e coincide con il mio intento di spiegare  […] perché usanze e credenze cambiano da una società all’altra e perché, nonostante tali differenze, esistono notevoli punti di contatto nel modo di vivere di esseri umani che risiedono in luoghi estremamente distanti l’uno dall’altro sul pianeta Terra”.

L’antropologia dell’educazione si sviluppa negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, negli Stati Uniti, per rispondere a un’esigenza sostan-zialmente di ordine pratico: quella di “fornire dati transculturali per lo studio dello sviluppo infantile, rifiutando spiegazioni del comportamento umano formulate in termini esclusivamente biologici”. Il punto focale degli studi è sempre stato centrato sui processi di marginalizzazione per ragioni etniche, razziali o di classe sociale, e sulle loro influenze nei processi educativi. Sia che abbiano messo in rilievo l’incidenza delle istituzioni scolastiche (J. Henry), sia che abbiano posto l’accento sulle “differenze” prodotte dal contesto d’apprendimento (coniugi Whiting), e conseguentemente degli stili interazionali, gli studiosi afferenti alla corrente di cultura e personalità hanno dato corpo alla responsabilità della scuola nello studiare e nel comprendere il patrimonio culturale di gruppi minoritari per impiegarlo nelle molteplici fasi dell’attività didattica, senza considerare le carenze di quei gruppi come un prodotto di culture di rango “inferiore”. È esemplificativa la ricerca di S. B. Heath, che mise in evidenza i problemi incontrati dagli insegnanti bianchi di classe sociale media nel rivolgersi ai loro alunni neri di classe sociale bassa con il medesimo lessico e le stesse strutture sintattiche (evidentemente inadeguate) che impiegavano con i propri figli.

J. Ogbu ha invece rilevato la tendenza degli immigrati volontari a integrarsi nell’identità sociale e nei paradigmi culturali della società ospitante, tentando con ciò di stabilire un’interconnessione tra forze locali ed extra-locali nel processo di apprendimento: il che, nonostante i limiti giustamente evidenziati da D. Foley, mi risulta  parti-colarmente persuasivo, poiché nella mia esperienza di accoglienza degli alunni stranieri ho sempre notato (e avvertito come un problema cui la scuola, per inadeguatezza, non sa ancora dare risposte efficaci) che ai genitori degli studenti stranieri “sta bene” ogni azione o proposta degli insegnanti riguardo la didattica e la valutazione dei loro figli, come se qualsiasi iniziativa da parte della famiglia, quand’anche espressamente sollecitata, possa compromettere il processo d’integrazione nella comunità del Paese ospitante, e di conseguenza inficiare qualsiasi possibilità di futura mobilità sociale.

Sembrano assai convincenti (quand’anche indiscutibilmente datate, e dalle conclusioni assai divergenti tra loro) le tesi di P. Bourdieu e di P. Willis riguardo alla tendenza del sistema scolastico di regolare i meccanismi di riproduzione sociale. Il primo individua tra i dispositivi che determinano “l’eliminazione continua dei figli delle classi meno privilegiate”  il capitale culturale, inteso come una sorta di eredità culturale familiare, punto d’inizio delle diseguaglianze, espressione di valori impliciti ed espliciti riconducibili all’origine sociale dei soggetti e responsabile delle differenti riuscite scolastiche. È specialmente il capitale linguistico – secondo Bourdieu - a fungere sin dai primi anni di scuola da strumento di selezione, a partire dal giudizio dei maestri sino all’intera durata della carriera universitaria: “La langue – scrive infatti l’autore – n’est pas seulement un instrument de communication, mais elle fournit, outre un vocabulaire plus ou moins riche, un système de catégories plus ou moins complexe, en sorte que l’aptitude au déchiffrement et à la manipulation de structures complexes, qu’elles soient logiques ou esthétiques, dépend pour une part de la complexité de la langue trasmise par la famille”.

Willis coglie invece una relazione diretta tra le caratteristiche peculiari della cultura operaia e la cultura “antiscolastica”, riconoscibile nell’atteggiamento antagonistico verso l’autorità (con l’elaborazione di uno stile consono), nel sabotaggio-rallentamento intenzionale del lavoro, nel tentativo d’imporre il proprio ritmo produttivo in opposi-zione al taylorismo scolastico e nell’elaborazione d’un orizzonte d’attesa lavorativo coerente con l’atteggiamento assunto, mettendo in atto in tal modo un “processo di separazione del sé da un sistema già dato” (differenziazione). Sicché in definitiva “le reazioni dei lads vanno interpretate come la conseguenza del modo in cui essi percepi-scono la condizione economica della classe sociale a cui appartengono nel sistema capitalistico”.

Accogliendo congiuntamente la lezione dei due autori – che in una visione assolutamente personale e non scientifica del “problema” mi piace di considerare in un certo senso complementari l’una all’altra – il concetto di classe diviene così uno spartiacque identitario ampia-mente condiviso, e secondo Willis per certi versi anche “accettato”, e provocato, da entrambe le classi. È in definitiva la posizione “mediana” sia di F. Erickson, secondo cui “l’insuccesso scolastico si riferisce ai modi in cui le scuole ‘agiscono’ perché gli studenti vadano male, e a quelli in cui gli studenti ‘agiscono’ per andare male a scuola”, sia di H. Varenne e R. MacDermott, che collocano l’individuo al centro del meccanismo che determina il successo o l’insuccesso nel sistema scolastico.

Le più moderne conquiste dell’antropologia forniscono quindi una risposta più convincente al problema dell’insuccesso, non più inteso come deficit da compensare (modello compensatorio di O. Lewis) ma come un fatto culturale arbitrario, che diviene reale proprio in quanto naturalizzato.

Nell’ambito di percorsi interculturali – e specialmente nei laboratori per l’inclusione - sicuramente l’antropologia dell’educazione contribuisce a predisporre esperienze didattiche che sostengano la curiosità e il comportamento esplorativo; a offrire a studenti italiani e stranieri “la possibilità di esprimere la propria originalità e di vederla riconosciuta e rispettata”; a progettare “percorsi che consentano di sperimentare le differenze nelle percezioni, nelle sensazioni, nelle emozioni, negli stili relazionali e cognitivi”; a migliorare la conoscenza e le relazioni con le differenze culturali. La ricerca delle “differenze” e delle “similarità” con altre appartenenze culturali, in contesto scola-stico, porta però troppo spesso – e qui anche chi scrive deve fare autocritica – alla banalizzazione delle culture diverse, riducendole a “cartoline” da cui lasciarsi piacevolmente suggestionare sull’onda di quello stesso “fascino dell’esotico” che accompagnava l’antropologia culturale di un secolo fa, con il rischio, che ne consegue, di “chiudere” il ventaglio delle possibilità di scoperta proprio mentre si cerca invece in buona fede di aprirlo. Più convincente, sotto il profilo interpretativo, la nozione di habitat di significato proposta da Han-nerz. Troppo spesso, inoltre, si vorrebbe che lo straniero in classe fungesse da enciclopedia vivente della cultura del suo paese d’origine, sempre pronto a spiegarci seduta stante usi, costumi, feste, cerimonie, gastronomia, musica e folclore che egli stesso per primo forse non ha mai conosciuto. In tal modo si giunge a quella deviazione che l’antropologo M. Aime ha definito come eccessi di culture, e si tende a dimenticare di avere piuttosto a che fare con “individui che portano con sé un modo di leggere il mondo, non culture in senso astratto” .

L’antropologia culturale può inoltre essere chiamata a far parte, a pieno titolo, di una programmazione didattica “alternativa” e anticonformista. Chi scrive propose pubblicamente, qualche tempo fa, una “rilettura” pluridisciplinare di alcuni classici delle scienze positivistiche tra fine-Ottocento e primo-Novecento, allo scopo di riscoprire una tradizione razzistica italiana ormai del tutto dimenticata ed espunta dagli stessi libri di testo. Se ancora si studiano i nomi di storici-antropologi come J. A Gobineau, G. Vacher de La Pouge e H. S. Chamberlain come precursori del razzismo nazista, sono oggi dimenticate opere, di presunto fondamento scientifico ma indubbio contenuto razzista, di C. Lombroso (In Calabria, 1897), A. Niceforo (L’Italia barbara contemporanea, 1898; La delinquenza in Sardegna, 1897; Italiani del nord e italiani del sud, 1901) ed E. Ferri (L’omicidio, 1897). Come è noto costoro, servendosi dei metodi “infallibili” della moderna scienza (come ad esempio l’antropometria), “dimostrarono” la superiorità razziale delle popolazioni italiane del nord rispetto a quelle del sud, fintanto che non furono costretti, anche per le autorevoli rimostranze di B. Croce e di G. Salvemini, ad attenuare le loro tesi in nome delle superiori esigenze dello Stato unitario. L’utilità di una programmazione didattica che tenga conto di questi autori, e dei loro errori, può prendere facilmente la direzione verso una riflessione sui più recenti e maturi risultati dell’antropologia culturale, e mettere in rilievo come essa oggi tenda a servirsi delle proprie conoscenze e scoperte per “avvicinare” le diversità e non, come nel caso degli autori sopra ricordati, per scavare solchi sempre più profondi.

L’antropologia culturale può nondimeno contribuire a spiegare le ibridazioni culturali nell’antichità, fornendo i concetti di locale e globale, così come li abbiamo ricordati in questa relazione, alle didattiche della storia e della letteratura. Ciò vale non soltanto per l’imperialismo romano, ma anche per il sistema di coordinazione politica costruito dai greci: “Non solo nelle sue origini – scrive S. Settis – ma anche nella sua trasmissione, dall’antichità fino a noi, la cultura greca si è mescolata ad altre culture, ne è stata fecondata e le ha fecondate; poiché ogni scambio è fatto di dare e avere.

A un estremo Omero che a volte, è stato scritto, “sembra tradurre dall’accadico”, o Esiodo, che riprende miti cosmogonici degli Ittiti; all’altro estremo il gran califfo al-Ma’mun (IX secolo), che dopo aver visto in sogno Aristotele manda messi a Bisanzio, e ne ottiene, per farli tradurre in arabo, “preziosi libri in greco di filosofia, geometria, musica, aritmetica e medicina”.

L’interesse per le ragioni profonde delle altre culture era del resto assai vivo nell’antichità. Ricordo soltanto il famoso aneddoto di Erodoto teso a dimostrare l’attaccamento di ciascuno alle proprie usanze come “di gran lunga le migliori di tutte”, e il valore della consuetudine come “regina di tutte le cose”. Dario – racconta lo storico greco – fece venire i Greci che erano presso di lui, e chiese loro a qual prezzo avrebbero acconsentito a cibarsi dei propri padri morti; e quelli gli dichiararono che a nessun prezzo avrebbero mai fatto ciò. Poi chiamò presso di sé gli indiani Callati, noti per divorare i genitori, e mentre ancora i Greci erano presenti e seguivano per mezzo di un interprete i discorsi, chiese ai Callati a quale prezzo avrebbero acconsentito a gettare nel fuoco i loro genitori defunti: e quelli con alte grida lo invitarono a non dire simili empietà.

A. Fe.